Piano Pastorale Anno 2017 – 2020

SALVATORE MONS. MICALEF

Vescovo Ordinario

PIANO PASTORALE ANNO 2017/2018

“L’EUCARISTIA

PER RIDIVENTARE CRISTIANI E COSTRUIRE LA CHIESA

SPOSA DI CRISTO RISORTO”

 

Roma lì, 15 Ottobre 2017

Introduzione

Come è noto, il progetto pastorale ha una scansione triennale: 2017/2020. Ed ha come soggetto di fondo la “Trasmissione della fede”. Il primo anno ci vedrà impegnati a riflettere sui soggetti della trasmissione della fede (comunità cristiana, presbiteri, gruppi e associazioni) e sui percorsi della fede (primo annuncio, secondo annuncio, percorsi differenziati). Ovviamente, la riflessione si concretizzerà con le iniziative. Quest’anno, senza perdere d’occhio il primo step, anzi consolidandolo, vorremmo introdurci in quell’humus propizio e fecondo per la trasmissione della fede qual è la Liturgia dei Sacramenti, soffermandoci però quasi esclusivamente su: “L’Eucaristia, celebrata e adorata, come fonte e culmine della vita cristiana”. Indubbiamente sarebbe interessante e utile proporre una riflessione sul Sacramento del Battesimo come luogo della prima trasmissione della fede; del Sacramento della Cresima come confermazione di tale fede accolta con senso di responsabilità dal soggetto battezzato; del Sacramento della Confessione o Penitenza come purificazione della fede vissuta; del Sacramento dell’Ordine finalizzato alla edificazione di una comunità di fede; del Sacramento del Matrimonio finalizzato alla testimonianza dell’Amore che, al dire del Magistero della Chiesa, è l’essenza, il nucleo della fede. Come pure sarebbe interessante e utile una riflessione sulla Liturgia delle Ore come alimentazione quotidiana della fede adulta. Ci soffermiamo invece sul senso che ha l’Eucaristia per la vita della Chiesa e del mondo, sul suo contenuto, il suo valore, il suo significato e la direzione che ci guida nella storia. Partiamo da una constatazione: l’Eucaristia è il “Mistero della fede!”. Di conseguenza, tutto ciò che riguarda la fede cristiana è in Essa contenuto. Di qui la concatenazione inscindibile tra “catechesi – Messa – vita”. La catechesi, o meglio “il percorso formativo a diventare cristiani adulti”, è, per così dire, una iniziazione permanente alla celebrazione del Mistero eucaristico! Essa, dunque, ha anima eucaristica. Se per sua natura la catechesi è “introduzione al discepolato di Cristo Eucaristia” per essere trasformati in Eucaristia, in modo riflesso, consapevole e libero, e non una lezione scolastica di religione, di impronta culturale, va da sé che, se vissuta a se stante, senza alcun legame con la Messa, a cui condurre, diventa un aborto. La Messa è il compimento e il senso profondo della catechesi. A sua volta, la Messa è destinata a sfociare nella vita, concretamente negli ambiti della laicità per fecondarli eucaristicamente (questo sarà il tema dell’anno prossimo, che tuttavia va tenuto sull’orizzonte già da quest’anno). Come la catechesi è interamente protesa alla Messa, così la Messa è interamente protesa alla vita di ogni singolo cristiano, che ne è il terminale per giungere alla vita eterna. Non a caso il Concilio Vaticano II definisce il Sacrificio Eucaristico “fonte e culmine di tutta la vita cristiana” (LG 11; la stessa definizione di Liturgia: SC 10: “La Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa è, insieme, la fonte primaria da cui promana tutta la sua virtù”). Nulla di più lontano dal ritualismo o dal comune bigottismo! In questo anno pastorale vorremmo anche scoprire l’identità battesimale e missionaria dei cristiani coinvolti con la partecipazione alla celebrazione della Santa Messa. Si tratta anzitutto della comunità cristiana, nata dal Battesimo, che si edifica in comunione fraterna proprio nella celebrazione dell’Eucaristia, grazie all’azione trasformante dello Spirito Santo. Evidenzieremo il rapporto tra Eucaristia e famiglia, piccola chiesa domestica (Messa domenicale della famiglia!). E’, pur senza mai separarli dal loro contesto familiare, vorremmo riservare una particolare attenzione ai “giovani”, perché riacquistino il gusto per la partecipazione, “attiva e devota”, alla Messa domenicale. La nostra Chiesa non potrà rassegnarsi al fatto che la Messa sia disertata da bambini, ragazzi, adolescenti e giovani. Ci interrogheremo poi sul senso che ha il presbitero con il suo compito di presidente dell’assemblea eucaristica. E porremo attenzione al mistero della vocazione al sacerdozio. Infine, vorremmo far emergere quanto la Messa è: la scuola più alta di discepolato, per intercettare, e per portare a compimento la chiamata alla vita di santità familiare. Dalla Messa può nascere una comunità capace di corresponsabilità laicale, che sia di aiuto e sostegno alla parrocchia, e al suo buon funzionamento. (cfr équipe di adulti rappresentativi della comunità, con mente e sensibilità panoramiche).

In conclusione, mentre nell’Eucaristia ci è dato di capire fin dove si spinge l’amore di Dio, assolutamente gratuito, per l’uomo, così esprimibile parafrasando il versetto del dialogo di Gesù con Nicodemo: “Dio ha tanto amato e ama l’umanità da consegnarsi nelle loro mani Eucaristia nel Figlio morto e risorto”, prendiamo coscienza di quanto Essa ci responsabilizza nei confronti di noi stessi, della Chiesa (che edifica in comunione fraterna eucaristica), dell’umanità. Quali ministeri sono connessi con la celebrazione e da essa esigiti? L’accoglienza, il servizio all’altare (accoliti, diaconi); i lettori (siano preparati a leggere bene!); il coro (anche prima e dopo la celebrazione, dove si possono eseguire musiche e canti strettamente liturgici, di carattere religioso, ma non profani): educare al canto liturgico appropriato; il decoro dell’ambiente, dell’altare, delle suppellettili e dei vasi sacri. Il clima spirituale che deve avvolgere la celebrazione dell’Eucaristia: sentire come grazia e diritto, prima che obbligo, la partecipazione alla Messa; premettere una adeguata preparazione spirituale già partendo da casa, prendendo coscienza del senso partecipativo alla celebrazione dell’Eucaristia come cuore della Domenica-Festa, Giorno del Signore (meglio se ci si prepara in famiglia con la lettura del Vangelo!); avere desiderio di portare alla Messa la vita della propria famiglia; il segno della croce con l’acqua battesimale all’ingresso della Chiesa; creare un clima di silenzio che sintonizza con il Mistero; dopo il saluto liturgico, è auspicabile aggiungere “Buona Domenica!”; realizzare una solenne sobrietà celebrativa da parte del “Presidente”, che rende presente il Vescovo; assicurare armoniosa articolazione dei momenti celebrativi, precisati dal Presidente stesso, senza sforamenti nella lunghezza dei canti e dell’omelia (massimo dieci minuti! Imperniata sui testi biblici, liturgici; a carattere mistagogico esistenziale); tenere una partecipazione “consapevole, attiva e fruttuosa” (SC 11): “È il Signore!”, sempre però nel grembo dell’Amore Trinitario di Dio; fare genuflessione all’ingresso e all’uscita che esprima fede; maturare piena disponibilità a portare nella vita il mistero celebrato e assimilato. E il presbitero abbia possibilità di fermarsi con la sua gente! Quale umanesimo viene germinato dall’Eucaristia? Un umanesimo eucaristico, cioè che si fa dono, contro la cultura dell’individualismo egoista che circonda come in una morsa mortale questo povero mondo. E’ quali sono le attenzioni preferenziali che derivano dall’Eucaristia celebrata e adorata? Quelle verso i poveri, materialmente e spiritualmente, gli anziani soli, i disabili, i malati. Quale rapporto tra Confessione e Comunione, cioè tra stato di salute spirituale e necessità di nutrimento eucaristico? Si tratta di verificare sul piano personale l’efficacia reale del risanamento operato dalla Confessione e del nutrimento eucaristico. Altrimenti se ne contraddice il senso stesso. Tutti gli itinerari pastorali terranno sott’occhio la realtà sacramentale dell’Eucaristia. E come icona? Gesù e i discepoli di Emmaus.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur. Capitolo I

 

ANNO PASTORALE DEDICATO ALL’EUCARISTIA

 

Un evento di grazia e di celesti favori.

Fratelli e Sorelle carissimi, l’obiettivo primario della nostra prelatura è quello di riprendere, approfondire e riproporre il ricco magistero conciliare intorno all’Eucaristia, come culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa (Sacrosanctum Concilium, 10), affinché sia concretamente vissuto nell’esperienza di fede di tutti e di ciascuno e nella pastorale ecclesiale, in prospettiva spirituale e missionaria. Quest’anno, senza perdere d’occhio il primo step, anzi vorremmo introdurci in quell’humus propizio e fecondo per la trasmissione della fede qual è la Liturgia dei Sacramenti, soffermandoci però quasi esclusivamente su: “L’Eucaristia, celebrata e adorata, come fonte e culmine della vita cristiana”, che, per molti aspetti, costituisce l’orizzonte e il quadro di riferimento necessari per comprendere il legame intrinseco che intercorre tra l’Eucaristia e la Chiesa, tra il Corpo sacramentale di Cristo e quello mistico che è la Chiesa, mirabile sacramento scaturito dal mistero pasquale di cui l’Eucaristica è memoriale. Non a caso nell’antichità cristiana il termine “Corpo mistico” era attribuito sia all’Eucaristia che alla Chiesa. L’enciclica di San Giovanni Paolo II: la “Dies Domini” sul giorno del Crocifisso-Risorto e giorno della Chiesa (31 maggio 1998), nella quale è sottolineata la centralità dell’assemblea eucaristica domenicale per l’esperienza di fede dei cristiani e l’edificazione della comunità ecclesiale.

… Per diventare cristiani e costruire la nostra Chiesa

Sull’Eucaristia abbiamo dunque un magistero ricchissimo e stimolante. Occorre solo saper scegliere rispondendo da una parte all’istanza della fedeltà a ciò che abbiamo ricevuto e, dall’altra, alle esigenze e situazioni delle nostre comunità cristiane sparse per il mondo.

D) Perché, allora, una lettera del Vescovo su un argomento così delicato e importante come questo?

·         Non si corre il rischio di sovrapporre un altro documento ai molti già esistenti che non è facile leggere, tra tanti impegni?

·         Non si corre anche il pericolo di introdurre, nel già complesso itinerario che ci è chiesto di compiere intorno all’iniziazione cristiana, un elemento “di disturbo”?

Questo interrogativo me lo sono posto anch’io. Mi sono deciso a scrivere, soffermandomi sul senso reale che ha l’Eucaristia per la vita della Chiesa e del mondo, sul suo contenuto, il suo valore, il suo significato e la direzione che ci guida nella storia. Partiamo da una constatazione: l’Eucaristia è il “Mistero della fede!”. Di conseguenza, tutto ciò che riguarda la fede cristiana è in Essa contenuto. Di qui la concatenazione inscindibile tra “catechesi – Messa – vita”. In questa prospettiva mi piace, dunque, collocare questa lettera che vuole aiutarci a non dimenticare, anzi a dare tutto il rilievo soprattutto pastorale al fatto che per essere e ridiventare cristiani, e più in generale per costruire una Chiesa autentica ed operosa, occorre mettere alla base, o meglio, al centro, il Mistero eucaristico. “Infatti come afferma il Concilio Vaticano II nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo sceso dal cielo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito santo e vivificante, dà vita agli uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti ad offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione” (Presb.Ord., 5). E subito dopo si afferma che essa è “il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero”, e dunque della comunità parrocchiale che è chiamata perciò ad essere “comunità eucaristica”. Non tanto perché i cristiani che la compongono partecipano in qualche modo e con frequenza abbastanza regolare alla Messa domenicale, quanto piuttosto perché dall’Eucaristia si lasciano non solo interpellare ma, soprattutto, “plasmare” verso una nuova esistenza di vita. C’è da chiedersi: concretamente cosa significa e comporta questo? Ebbene questa lettera si propone, umilmente, di dare almeno qualche risposta a questo interrogativo. Lo farò cogliendo soltanto alcuni aspetti del Mistero, che reputo fondamentali e che sono come raggi luminosi di un prisma ricchissimo di facce e di riflessi. Con una preoccupazione e un intento particolare. Quello di tentare, a partire proprio dal Mistero eucaristico, di ridisegnare l’identità dei cristiani, in modo che la partecipazione ad esso contribuisca a comunicare loro la forza dello Spirito per diventarlo o ridiventarlo. In secondo luogo, ma in stretta relazione con quanto appena accennato, per convincerci ed impegnarci sempre più decisamente nella costruzione di una Chiesa che sia veramente e pienamente “eucaristica”. Una Chiesa di accoglienza, di dialogo, di oblatività, di comunione e di servizio. Sono questi appunto gli aspetti del Mistero eucaristico sui quali desidero puntare l’attenzione.

L’Eucaristia, sacramento della nuova ed eterna alleanza.

Ritengo finalmente doverosa un’altra “dichiarazione di intenti”. Attiene al “modo” con il quale cercherò di accostarmi al Mistero. Non secondo categorie astratte o razionali ovvero in una prospettiva “statica”, quanto piuttosto ad un “evento” divino, “nascosto” se si vuole, e quindi trascendente, che si svela però e si fa presente qui ed oggi, come evento di salvezza, attraverso segni sensibili, conforme a quella “legge dell’incarnazione” o delle mediazioni che presiede a tutta l’economia della salvezza. E’ secondo questo significato che San Paolo e la Tradizione patristica e liturgica intendono il termine “mistero/i”. Cercherò, dunque, di accostarmi, con timore e tremore, al Mistero Eucaristico partendo dal segno o dai segni attraverso i quali l’evento si fa visibile, fidando sulla luce dello Spirito che, solo, può guidarci dal segno al mistero e farcene diventare partecipi. Per andare dal segno al mistero occorre anzitutto cogliere il senso talora recondito ma inesauribile dei segni partendo dal loro significato antropologico-culturale, ma soprattutto mettendo in risalto il valore espressivo che essi hanno assunto nella storia della salvezza, e in particolare nella Rivelazione biblica. E’ dalla parola di Dio, infatti, che prendono senso pieno e dunque spessore salvifico i “santi misteri” che noi quotidianamente celebriamo. Venendo dunque al Mistero eucaristico l’approccio che mi propongo, squisitamente biblico, è quello di “leggerlo” con gli occhi della fede (come direbbero i Padri) nell’ottica dell’alleanza tra Dio e gli uomini che è come il “filo rosso” di tutta la Rivelazione sia dell’antico come del nuovo testamento. Un’alleanza con caratteristiche particolari in rapporto ai particolari o speciali protagonisti o partners, se si vuole; tra le quali la più singolare sembra essere quella della “sponsalità”, messa in risalto già nella letteratura profetica e sapienziale, e ripresa nella tradizione evangelica e patristica. Un’alleanza, ancora, realizzata con paziente gradualità, secondo quella “pedagogia divina” che risulta da tutta la storia della salvezza, e che fa emergere due aspetti e momenti. Uno relativo all’alleanza come evento storico che, nell’antico testamento, è costituito dalla liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto, suggellata dall’alleanza stipulata con Mosè alle pendici del Sinai come un sacrificio di comunione sancito dal sangue. Nel nuovo testamento questo evento è costituito dal sacrificio pasquale di Cristo sulla Croce, compiuto una volta per tutte, nel quale ha pieno e definitivo compimento l’alleanza tra Dio e gli uomini. L’altro aspetto è quello della celebrazione memoriale dell’evento stesso. Nell’antica alleanza il popolo d’Israele, divenuto speciale proprietà di Dio, ne celebra la memoria in un’azione rituale nella quale fa concreta esperienza della salvezza che Dio continua ad offrire, attraverso la mediazione dei simboli a coloro che credono in lui e gli sono fedeli. Segnatamente nella cena pasquale, celebrata il Giovedì Santo ogni anno in ricordo dell’Eucaristia. Quindi, il nuovo popolo di Dio, sempre nella celebrazione memoriale dell’Eucaristia, attualizza il sacrificio pasquale di Cristo, ne gode la presenza reale, gli rende grazie e vi s’inserisce partecipando al suo Corpo e Sangue, in attesa del suo glorioso ritorno nella gloria. Vista in questa prospettiva l’Eucaristia, sacramento del sacrificio di Cristo, memoriale perenne dell’alleanza-comunione che in Lui e per Lui Dio offre agli uomini, non è solo una celebrazione del più grande evento della storia della salvezza, ma svela a quanti lo celebrano un progetto di fede e quindi di vita per diventare cristiani e per costruire la Chiesa, nell’ottica appunto dell’alleanza. E’ su questo “progetto” che questa lettera vuole concentrare l’attenzione. Affinché sia da tutti meglio conosciuto e soprattutto “sposato” con più consapevolezza e impegno.

CAPITOLO II

L’EUCARISTIA E’ INCONTRO TRA DIO E L’UOMO

L’incontro: momento iniziale di comunione

Ogni relazione tra persone, soprattutto quella dell’amore, e dell’amore sponsale in particolare, muove sempre e si sviluppa a partire da un incontro. E’ nell’incontro, quando è frutto di una ricerca, di un desiderio, addirittura di un’attesa o di un bisogno, che in genere scatta la scintilla dell’amore. E’ il momento dell’innamoramento che ha sempre qualcosa di indicibile e di “urgente” che spinge fortemente ad aprire un dialogo per una conoscenza più approfondita che è premessa per creare una comunione più profonda. L’alleanza creata tra Dio e gli uomini, è il filo conduttore di tutta la Rivelazione biblica, come già ricordato, non sfugge a questa “logica”. Dio cerca l’uomo perché vuole invitarlo ed ammetterlo alla comunione con Sé, vuole renderlo partecipe della Sua vita Divina (Dei Verbum, 2); con tutti coloro poi che si lasciano trovare e si aprono con la fede all’invito, vuole formare una sola famiglia, un popolo che lo riconosca nella verità e fedelmente lo serva  con amore e dedizione (Lumen gentium, 9). Perché Dio cerca l’uomo? Perché Dio è Amore (I Gv 4,8) e l’Amore si rivela e si diffonde, vuole espandersi fino ai confini della terra. Questo avviene in seno alle tre Persone divine nel mistero della Trinità, che è mistero di relazioni e di comunione insieme. Questo fatto, tuttavia, risulta con maggiore chiarezza dalla storia della salvezza di cui il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono i protagonisti perché il mistero della comunione divina si riveli in una “economia” che null’altro ha di mira se non introdurre in essa gli uomini. È il disegno supremo che Dio ha concepito fin dall’eternità e che si sta svolgendo nel tempo e del quale Cristo incarnato, crocifisso e risorto è il centro ed il cardine.

Il Dio dell’alleanza è “con” e “per” gli uomini.

Il Dio della Rivelazione è Dio con noi e Dio per noi. E’ il significato pieno ed autentico del suo “nome”, rivelato a Mosè nel fuoco del roveto ardente, al momento della sua chiamata alla Vera Vocazione. Questa, si può considerare per molti aspetti, l’inizio della vicenda storico-religiosa d’Israele e dunque dell’alleanza con cui Dio, dopo la fase delle promesse, vuole “fare” un popolo numeroso come le stelle del cielo. Dicendo “Io sono Colui che sono” (Es 3,14), infatti, Dio non vuole solo esprimere la trascendenza, ma anche il suo essere “con” e “per” gli uomini di buona volontà. La stessa celebrazione dell’alleanza, dalla quale nasce il popolo di Dio, e che porta a compimento la pasqua di liberazione, inizia con un invito all’incontro, con una vocazione, anzi con una convocazione. “Va’ e convocami il popolo”, ordina Dio a Mosè. La convocazione, l’incontro tra Dio e i salvati dalla schiavitù, è dunque il primo “atto” della celebrazione dell’alleanza. Quello sarà chiamato perciò “il giorno dell’assemblea” (Dt 4, 10). Se dall’antica passiamo alla nuova alleanza, dalla figura alla realtà, dalla promessa all’adempimento, non è fuori luogo considerare il primo momento di essa nell’evento dell’incarnazione. E’ nel suo Figlio fatto uomo che Dio viene a cercare gli uomini, viene a convocarli, per renderli partecipi della sua vita e farne la “ecclesia”, il popolo della nuova ed eterna alleanza. Nell’incarnazione infatti, come avremo modo di approfondire più avanti, Dio si è fatto definitivamente uomo, in Cristo Gesù; si è “sposata” l’umanità chiamando tutti alla comunione con lui. E’ stata soprattuto la Tradizione patristica a sviluppare questo filone di riflessione teologica, destinato a suscitare lo stupore e l’azione di grazie.

L’incontro del Risorto con i due Discepoli di Emmaus

Prendiamo in considerazione l’episodio dei due discepoli in cammino verso Emmaus, avvenuto “il giorno dopo il sabato”, cioè la sera del giorno della risurrezione (Lc 24, 13 ss), e nel quale non è difficile riconoscere, come in filigrana, il dinamismo della celebrazione eucaristica, non solo prende avvio con l’incontro del Risorto con i due Discepoli, ma si qualifica in tutto il suo svolgimento come un incontro sconvolgente, come un appuntamento che cambia radicalmente la vita dei due. Gesù in incognito, travestito da pellegrino si fa loro compagno di viaggio, si unisce discretamente ad essi, si interessa della loro vita, nei loro discorsi, si lascia provocare dalle loro domande, dai dubbi che li assalgono, dalle delusioni che li rattristano. Il Risorto è con loro ma i loro occhi sono impediti di riconoscerlo perché la fede si è spenta e la speranza infranta, in quel famoso Venerdì Santo della storia della salvezza. Il “riconoscimento”, che diventerà esperienza di comunione, avverrà gradualmente, nella misura in cui si apriranno alla parola e si metteranno a tavola con lui. L’esperienza di quei due è quella di tutti i discepoli, nell’Eucaristia. Cristiani si diventa nella misura in cui si accoglie l’invito del maestro, a seguirlo, a camminare con lui sulle vie che egli per primo ha percorso, tracciando la strada sicura che porta alla vita piena ed eterna. Ma quanta fatica, quante sconfitte e delusioni, quante difficoltà, tentennamenti e tentazioni di volgersi indietro o cambiare strada ci vogliono per essere come Gesù veramente ci vuole! Per questo il Signore non cessa di venirci a cercare, di farsi accanto a noi, anzi a “convocarci” intorno a lui per fare Chiesa, Comunità. Per questo motivo infatti, l’ Eucaristia è il sacramento dell’incontro di lui con noi e di noi con lui per formare un solo Corpo. Non è forse questo il significato del “canto di inizio” della celebrazione? Là dove si fondono le voci – afferma Sant’Agostino- si uniscono i cuori. L’Eucaristia è “festa”, di chi chiede sempre di ritrovarsi, di agire insieme con parole e gesti che esprimano gioia e creino unità. “Là dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20), queste parole del Signore la Tradizione patristica le ha sempre riferite in modo eminente al “convenire in unum” dell’assemblea eucaristica. Di conseguenza il “saluto” rivolto ai fedeli da colui che presiede e nell’assemblea rende presente Cristo Capo e Pastore, non è solo un augurio, ma soprattutto una constatazione: “Il Signore è con noi”. E se lui è con noi non abbiamo nulla da temere. Niente può spaventarci, nessuno frenarci o arrestarci nel cammino per diventare veri discepoli, ne il dubbio e lo scoraggiamento, né la fatica o la stanchezza che a volte la sequela ci fa sentire. Neanche il peccato, che ci raffredda nell’amore, quando addirittura non lo uccide. Anche in questa situazione infatti, il Risorto che è nostro pastore ci insegue nella valle oscura della lontananza da lui e ci viene a cercare. Chiede soltanto che ci lasciamo raggiungere dai suoi richiami e torniamo a “volgere lo sguardo” a lui, dopo avergli voltato le spalle. È questo il senso della “conversione”, condizione imprescindibile per rinnovare l’alleanza con Dio, compromessa, o peggio ancora, corrotta con la ribellione del peccato. In questa prospettiva prende senso ed acquista spessore impegnativo non solo “l’atto penitenziale” posto all’inizio della celebrazione, ma soprattutto – se siamo consapevoli di aver infranto gravemente l’alleanza con Dio e con i fratelli- il sacramento del perdono. Gesù ha voluto infatti l’ Eucaristia “in remissione dei peccati”, dunque come il sacramento di riconciliazione, o meglio, di un’esistenza riconciliata tra noi con lui, che è la nostra pace (Ef 2 , 14). Solo a questa condizione, divenuti “nuove creature” dall’amore effuso nei nostri cuori che è lo Spirito del Risorto, noi siamo resi degni di “stare davanti a Dio” e di servirlo, con un culto che gli è gradito perché gli è presentato dallo stesso Cristo Signore, Figlio diletto del Padre Sommo Sacerdote, nostro “avvocato” e Mediatore.

L’Eucaristia ci educa all’incontro.

La Chiesa, infatti, prolungamento nel tempo dell’umanità di Cristo, che nell’assemblea eucaristica ha la sua più alta epifania, è “la tenda dell’incontro”. Non soltanto perché in essa sono le sorgenti della vita e ci è dato, perciò, d’incontrare il Risorto che è via, verità e vita e formare una sola famiglia; ma perché nel deserto del mondo, a molti che sono pellegrini smarriti e disorientati, è consentito di trovare nella celebrazione eucaristica domenicale un’oasi di accoglienza, per soddisfare attese e trovare risposta alle loro domande. L’Eucaristia, mistero di accoglienza del Signore nei nostri confronti, è un’esperienza che deve modellare il cristiano e la comunità che la contemplano, la celebrano e la adorano e quindi spingere a tradurla in uno stile di apertura, di disponibilità, di accompagnamento nei confronti di tutti coloro che s’incrociano sulle loro strade. E a farlo come lo ha fatto lui, “in sua memoria”, con la stessa intensità e vicinanza, con le stesse caratteristiche di gratuità, di tolleranza, di pazienza e di premura. “Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi”, ci ripete San Paolo (Rm 15,7). L’Eucaristia plasma ed educa all’accoglienza. Non solo quando ci si raduna in assemblea per celebrare il memoriale della pasqua, senza pregiudizi o chiusure; ma anche prima e dopo e in ogni situazione della vita, in modo che chiunque nelle comunità soprattutto parrocchiali si senta sempre ed effettivamente accolto come membro di una famiglia, come una persona che ha una sua dignità e merita perciò rispetto, attenzione, ascolto; specialmente se in difficoltà o alla ricerca di risposte da dare alle domande di senso che si agitano nel cuore. Per far sì che appaia effettivamente che Dio è Padre e vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (I Tm 3,4).

CAPITOLO III

L’EUCARISTIA E’ DIALOGO

La Rivelazione: dialogo tra Dio e gli uomini

Nella relazione d’amore, e nell’alleanza sponsale in particolare, l’incontro dell’uomo e della donna, che ne costituisce l’inizio ed il fondamento, è destinato a svilupparsi e maturare nel dialogo. E’ nella natura delle cose. L’uomo infatti, “spirito incarnato”, come lo definisce San Tommaso, i suoi pensieri e i suoi sentimenti più profondi li manifesta e li comunica prima di tutto con la parola. La parola riconosciuta e accolta genera la risposta e dunque il colloquio dell’amore. “Quando Dio parla agli uomini usa il linguaggio degli uomini”, dice Sant’ Agostino. Questo vuol dire che quando Dio decide di far conoscere agli uomini da lui eternamente amati il suo progetto di salvezza, per invitarli a diventare non solo destinatari ma protagonisti nella storia, adotta uno stile che si muove secondo la stessa logica. E’ la “pedagogia” che si riscontra già nella Rivelazione biblica. Così Dio mostra la sua “condiscendenza” verso l’umanità e pone in atto una “strategia di adattamento” nei confronti degli uomini, che diventa quindi punto di riferimento imprescindibile per quanti egli chiama a collaborare al suo disegno e perciò costituisce suoi testimoni. Questo è vero in modo del tutto speciale per l’alleanza dapprima promessa e poi realizzata, nella prima fase della storia salvifica, con Israele e dopo di lui e a partire da lui con il mondo intero. E’ per tale motivo che Paolo VI nella sua prima enciclica dal titolo “Ecclesiam suam”, può affermare senza ombra di dubbio che la “Rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata in un dialogo”. E continua ricordando che “la storia della salvezza narra … questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo è mirabile conversazione” (n. 72) e che ha -com’è noto- la sua più piena attuazione nella Parola fatta carne (Eb 1, 1 ss). Lo dice la stessa parola “Rivelazione”. Attraverso questo dialogo Dio svela ed attua progressivamente il suo progetto di alleanza/comunione; mette in atto una sapiente pedagogia fatta di rispetto per l’uomo, di gratuità e di amore; si fa conoscere, manifesta la sua volontà: ciò che egli chiede all’uomo per essere amato e servito; ma chiede soprattutto una risposta di libertà, una decisione; in una parola “l’obbedienza alla fede” (Rm 1,5) che è quanto dire una vita di fedeltà ed un servizio che ha la sua somma espressione più significativa nel culto, nella preghiera nell’obbedienza e nell’amore reciproco.

Il dialogo nella celebrazione dell’alleanza

Quanto siamo venuti dicendo emerge con chiarezza da quasi tutte le pagine della Sacra Bibbia. Come, ad esempio, quando Dio chiama gli uomini a collaborare all’attuazione del suo disegno di amore. A partire dai patriarchi con i quali stringe un’alleanza e li fa portatori della promessa di volerla estendere ad un popolo numeroso come le stelle del cielo; fino ai profeti ai quali chiede, quando Israele si allontana da lui, di farsi suoi portavoce per esortarlo alla conversione e annunciare un’alleanza nuova che non verrà mai meno. Quando l’alleanza verrà finalmente sancita, per la prima volta “nel giorno dell’assemblea”, come sopra ricordato, per portare a compimento l’evento pasquale di Israele, Dio, dopo la convocazione apre con il popolo un dialogo attraverso Mosé. Propone le “dieci parole dell’alleanza” e detta per così dire le clausole di un patto di comunione che comporta una reciproca fedeltà e viene suggellato in un rito di sangue, ma solo dopo che Israele ha detto “l’amen” della sua obbedienza e del suo impegno (cfr. Es 24, 3 ss). Tutto ciò avviene, nella vicenda di Israele, tutte le volte che il popolo avendo tradito l’alleanza, la fiducia dell’Unico Vero Dio, dopo averne preso piena conscenza e consapevolezza, ritorna come un agnello mansueto a Dio per rinnovarne gli impegni (Gs. 24, 1 ss; Ne 8-9). Sono soprattutto le pagine del Vangelo, “buona novella” dell’alleanza che Dio vuole sancire con tutti gli uomini, per mezzo del suo Figlio fatto carne, ad attestarci che la Rivelazione è dialogo. Dopo averli incontrati ed essersi interessato ai loro dubbi ed allo smarrimento che li invade, il Risorto entra in dialogo con essi; spiega le Scritture e mentre svela il suo “segreto messianico” alla luce delle antiche profezie, dissipa le loro incertezze, risponde alle domande che si agitano nel loro cuore triste ed abbattuto, soprattutto in ordine alla scelta fatta del discepolato di Cristo che li aveva attratti e chiamati con sé. Le parole del misterioso Viandante scendono nel cuore e lo fanno ardere da una fiamma viva e rigenerante, sono un “mistero di luce” che ridesta la fede e fa fiorire sulla loro bocca l’invocazione: “Resta con noi, Signore!” ormai è giunta la sera. La loro esperienza di fedeltà diventa anche la nostra nell’Eucaristia, memoriale della risurrezione del Signore.

Il dialogo nell’Eucaristia

La liturgia nel suo insieme di segni sensibili ed efficaci dell’alleanza nuova di Dio con gli uomini come “storia della salvezza in atto” ha una dimensione e struttura essenzialmente “dialogica”. “In essa –come afferma la Costituzione liturgica, Dio parla al suo popolo e il popolo risponde con il canto e la preghiera” (n. 33). Non a caso, infatti, nell’azione liturgica un posto fondamentale ed insostituibile ha la proclamazione della parola di Dio che svela il piano della redenzione nella storia umana, dapprima annunciato e poi definitivamente compiutosi in Cristo. Privata della parola di Dio la liturgia si riduce facilmente a cerimonia o rito esteriore. Può essere anche esteticamente bella, ma risulterebbe senz’anima. Perde la sua efficacia salvifica. La stessa risposta ad essa, nella celebrazione è costituita prevalentemente dai Salmi con i quali noi rispondiamo a Dio con le sue stesse parole, come afferma Sant’Agostino. Per questo possiamo star certi di essere più facilmente ascoltati. Questo che è vero per ogni celebrazione, lo è soprattutto dell’Eucaristia nella quale il dialogo divino raggiunge il suo vertice, particolarmente nella prima parte, opportunamente denominata liturgia della parola e che la riforma conciliare, aprendoci una mensa più varia e abbondante di essa, per di più proclamata nella lingua viva, ci ha fatto riscoprire. Non come semplice “scuola” e dunque con valore didattico o di insegnamento, ma come evento di grazia e di santificazione. Attraverso le letture, Dio ci parla e continua ad operare le meraviglie del suo amore; attraverso il Vangelo, in particolare, Cristo Signore si fa realmente presente tra i suoi per donare lo Spirito, per alimentare la fede e trasformare così tutta la vita in offerta gradita al Padre, come la sua. Quella parola divenuta viva, ha un suo naturale prolungamento nell’omelia, destinata a renderla attuale ed impegnativa per chi l’accoglie, non è dunque semplice rievocazione di fatti del passato. “E’ viva, efficace e più tagliente di una spada” (Eb 4,12) destinata ad avere il suo compimento in coloro a cui è inviata perché si faccia carne in loro, come in Maria nel mistero dell’incarnazione e in tutta la sua vita di prima discepola del Signore. E’ questa la prima e fondamentale risposta che ci è chiesta nel dialogo con Dio. Tuttavia, nella celebrazione eucaristica, la risposta è destinata ad assumere anche forme sensibili, come è richiesto dalla natura stessa non solo della liturgia, ma della nostra natura di creature che esprimiamo i sentimenti più profondi attraverso parole e gesti. Ascolto, contemplazione, stupore, lode e azione di grazie, compunzione di cuore e invocazione, si esprimono nel silenzio, nella risposta del salmo (in rapporto al messaggio della lettura proclamata), nel canto gioioso di acclamazione che, mentre ci apre all’accoglienza della parola evangelica, ci fa dire “grazie” dopo averla fatta nostra. Ma è soprattutto attraverso la professione di fede (il Credo degli Apostoli sancito nel Concilio di Nicea nell’Anno 325), che manifestiamo il nostro assenso a ciò che Dio nella sua parola ci svela e ci chiede per diventare discepoli del suo Figlio. Finalmente, nella preghiera di invocazione con respiro universale, mentre esercitiamo il servizio sacerdotale, facciamo nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, i bisogni e le attese non solo della Chiesa ma del mondo perché tutto e tutti sperimentino la bontà di Dio e siano a lode della sua gloria.

ll dialogo come servizio alla comunione e alla missione

Il dialogo che avviene nella celebrazione eucaristica è chiamato però a irradiarsi e a prolungarsi in forme e momenti diversi sia nell’esperienza di fede personale del discepolo, sia in quella dell’intera comunità orante. Sempre però da un duplice versante: quello “discendente”, del dialogo che, come dono, viene da Dio direttamente e/o attraverso mediazioni; quello “ascendente” che è costituito dalla risposta al dono da parte di chi lo accoglie. Ciò si presenta, per esempio, nelle diverse forme di annuncio della parola di Dio. A partire dal “primo” che ha come buona notizia Cristo crocifisso e risorto. E’ l’inizio dell’itinerario della fede che non possiamo mai dare per scontato nell’attuale situazione. E poi c’è la catechesi ordinaria, servizio fondamentale per la crescita e maturazione nella fede e, con essa, le nuove forme di annuncio come l’attivazione dei Centri di ascolto del Vangelo, di testimonianza negli ambienti di vita. Nel clima di smarrimento, d’ incertezza, di disgregazione e di conflitti soprattutto interiori o di ricerca di senso più o meno espressa, di fronte alle non poche occasioni che ci si offrono, un’attenzione particolare va riservata alla relazione interpersonale e al dialogo a tu-per-tu di cui Gesù è maestro, come si evidenzia dai suoi noti colloqui con Nicodemo (Gv 3, 1 ss) e con la Samaritana (ivi 4, 7 ss). Sono occasioni da valorizzare per offrire a Dio l’opportunità di continuare a parlare e aprire un dialogo con gli uomini del nostro tempo affamati di verità anche se distratti e disorientati da tante parole e proposte. C’è poi un dialogo “ascendente” tra gli uomini, divenuti discepoli, e il Padre, il Figlio suo nello Spirito Santo, destinato a prolungarsi nel colloquio della preghiera personale soprattutto, fatta di silenzio, di contemplazione, di ascolto, di stupore che non sempre è esprimibile con le parole… Come non pensare parlando dell’Eucaristia, all’adorazione che spinge il credente singolarmente e tutta la comunità, a sostare in ginocchio in preghiera davanti al tabernacolo o all’altare sulla cui mensa è esposto, in momenti che si vorrebbero sempre più frequenti e ben preparati, il sacramento della presenza di Cristo tra i suoi? Se si vuole viverli come esperienza d’incontro e di dialogo è necessario che, lasciando tempo adeguato al “sacro silenzio” essi propongano, con sobrietà e senza eccessivo verbalismo, l’ascolto della parola di Dio e suscitino la risposta dell’adorazione, del ringraziamento e della supplica. Ma c’è ancora un altro aspetto da tenere presente. Il dialogo che si compie durante la celebrazione eucaristica e, più in generale nell’annuncio della parola di Dio e nella preghiera è esemplare, anzi “normativo”, punto prezioso di riferimento per la missione che i credenti che sono sollecitati a compiere per far progredire il disegno di Dio nella storia, fino al suo compimento, la discesa della Nuova Gerusalemme Celeste. Con il Concilio Vaticano II la Chiesa ha inteso riprendere, dopo secoli di separazione, di incomprensioni reciproche, di fratture e persino di contrapposizioni, le vie del dialogo non solo con il mondo moderno, ma anche con le altre confessioni cristiane e con le grandi religioni. Paolo VI che dell’assise ecumenica è stato guida saggia, prudente ed aperta, nell’enciclica già ricordata “Ecclesiam suam” ne ha illustrato senso e portata, le caratteristiche, lo stile, gli obiettivi a partire dal dialogo intessuto da Dio con gli uomini, nella storia della salvezza. Ebbene questo dialogo che ha nella celebrazione eucaristica la sua espressione più alta e di più grande efficacia, in ragione della presenza del Risorto che con la parola fa dono ai suoi dello Spirito Santo per la comunione e la missione, non solo ci plasma come Discepoli ed Apostoli di Cristo, ma ci educa e ci spinge al dialogo con il mondo. Un dialogo da condurre con discernimento, ma anche con coraggio profetico per riconoscere i semi del Verbo presenti nella storia e portarli a compimento con pazienza ed amore, ma anche per denunciare il male in tutte le forme ed estirparlo alle radici al fine di aprire all’umanità gli orizzonti della speranza nuova. Nei confronti dell’uomo smarrito, disorientato, in preda alle molte paure, il dialogo è la via privilegiata per stabilire ponti d’intesa e di comprensione per favorire quell’accompagnamento personale in grado di far scoprire o riscoprire la fede e quindi la chiamata di Dio ad entrare nel suo progetto salvifico. È una “strategia” da riprendere e valorizzare, facendo delle nostre comunità parrocchiali, edificate sull’Eucaristia “fontane” non inaridite, ma in grado di soddisfare la sete di chiunque bussa alla porta della “casa comune” per trovare ospitalità non da straniero, ma da amico e fratello, e formare una sola famiglia.

CAPITOLO IV

L’EUCARISTIA E’ DONARE LA VITA

Dio celebra le nozze con l’ umanità

In ogni rapporto d’amore fra uomo e donna giunge sempre il momento nel quale si avverte che le parole non sono più sufficienti ad esprimere in pienezza la relazione interpersonale ed a creare una comunione che si desidera sempre più profonda e coinvolgente. Per questo all’altro/a ci vuole il totale dono reciproco della vita. È avvenuto così in qualche modo anche nella storia dell’alleanza tra Dio e gli uomini. Dopo la fase del dialogo incentrato sulla parola e instaurato in particolare con il suo antico popolo, Dio infatti ha voluto farsi carne nel Figlio, nato dalla Vergine, perché tutti gli uomini, in lui e per lui, avessero la pienezza della vita. Dopo la stagione del fidanzamento con Israele vissuta emblematicamente nel deserto, durante i quaranta anni dell’Esodo (Os 2, 16) Dio, nella pienezza del tempo (Gal. 4,4), ha voluto celebrare le nozze con l’umanità, unendosi così in certo modo ad ogni uomo (Gaudium et Spes, 22). È la prospettiva nella quale si colloca, ad esempio, il racconto evangelico di Giovanni, che, nella sua dimensione simbolico-sacramentale ci svela il “mistero”. Come fa anche la Lettera agli Ebrei, considerata dagli studiosi una grandiosa omelia nella quale domina Cristo mediatore della nuova ed eterna alleanza. L’incarnazione costituisce il primo momento delle nozze tra Dio e l’umanità. Di esse Giovanni vede un “segno” nello sposalizio di Cana, inizio dell’ “ora” di Cristo che si compirà più tardi con la morte sulla croce. È analoga la prospettiva della Lettera agli Ebrei. Entrando nel mondo e assumendo una carne umana da Maria, per opera dello Spirito Santo, il Verbo dice il suo “eccomi”, il sì dell’obbedienza al Padre ed al progetto dell’alleanza. È il primo momento di un evento, quello sponsale, che avrà la sua “consumazione” nel sacrificio della croce, quando il dono della vita sarà totale e fecondo.Qui l’atto di obbedienza al Padre sarà definitivo e Dio esprimerà il suo gradimento risuscitandolo da morte il terzo giorno e costituendolo Signore e datore di vita per tutti coloro che crederanno in lui. E da esso nascerà la Chiesa, Sposa dell’Agnello e inizio di una nuova umanità redenta dal suo sangue innocente.

La “vita data” nel segno del sangue

Di quanto Dio ha compiuto nella pienezza del tempo abbiamo però qualche prefigurazione e annuncio già nell’antica alleanza. Il popolo d’Israele infatti era già stato in qualche modo introdotto nell’esperienza di comunione alla vita divina. Un segno particolare esprime questa partecipazione: il sangue, che in molte culture antiche è il simbolo per eccellenza della vita. È nel segno del sangue, infatti, che viene sancita sul Monte Sinai l’alleanza di Dio con Israele proposta dalle parole della Legge. “Mosé scrisse tutte le parole del Signore poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte… Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire… sacrifici di comunione per il Signore… Prese poi metà del sangue e lo versò sull’altare. Con l’altra metà asperse il popolo dicendo: ecco il sangue dell’alleanza che il Signore oggi ha concluso con voi” (Es 24, 4-5.7). Se dal segno andiamo al “mistero” è facile scoprire il messaggio trasmesso dalle parole e dai gesti di Mosé. L’alleanza si suggella nel contesto di un sacrificio di comunione. Il sangue sparso prima sull’altare, luogo della presenza o rivelazione divina, e poi sulle tribù d’Israele esprime con chiarezza che l’alleanza è un patto vitale, che crea una comunione di vita tra Dio ed Israele divenuto, in forza di ciò, da un insieme di tribù, il popolo che appartiene a Dio, una nazione santa chiamata ad annunciare a tutti le meraviglie compiute per lui. Dalle pendici del Sinai andiamo al Cenacolo, dove Gesù, come ogni ebreo sta celebrando insieme agli Apostoli, nel rito pasquale la memoria della liberazione o alleanza. La nostra attenzione si concentra sulle parole che egli pronuncia alla fine della cena mentre prende in mano il calice del vino per pronunciare la “benedizione” con la quale si rendevano grazie a Jahvè per l’evento. Sono, con qualche aggiunta significativa che evidenzia la novità di quanto sta avvenendo, le stesse pronunciate da Mosé quando viene sancita l’antica alleanza: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” (Mt 26, 28). Quel sangue è quello dell’Agnello/Servo: lo stesso che l’indomani sarà versato sulla croce; il sangue della nuova ed eterna alleanza che abbatterà tutti i muri innalzati dalla superbia umana che separano gli uomini da Dio (Ef 2,14) e rappacificherà tutte le cose che stanno sulla terra e nei cieli (Col 1,20). Quel sangue è la vita “data”, offerta al Padre, perché il progetto antico, ombra e figura della comunione sponsale, sia finalmente compiuto.

L’Eucaristia, sacramento della “vita data”

Nel suo intrinseco dinamismo di azione simbolico/rituale, che si rifà a ciò che avvenne sul Sinai, l’Eucaristia, dopo l’incontro iniziale con il Risorto e il dialogo attraverso la parola proclamata ed accolta nella fede, raggiunge il suo vertice nella grande preghiera di azione di grazie e di santificazione. Non è un semplice testo da “recitare” magari frettolosamente, come si sente con una certa frequenza, ma un vero e proprio “evento”, un’azione di grande respiro che fa memoria dell’opera della redenzione. Ciò che “avviene”, tutto quello che colui che presiede dice e fa e di cui tutti si fa esperienza, assume significato e portata salvifica nel nostro oggi. Ci consente di entrare del mistero “grande e tremendo” che si compie e diventarne partecipi dell’unico Corpo. È necessario sostare, anche se per un istante in contemplazione di ciò che avviene. Gesù, come il padre di famiglia nella cena pasquale, compie i gesti tipici del rito: prende il pane… prende il vino, rende grazie e li dà ai suoi amati Apostoli. Questi gesti però acquistano spessore particolare alla luce delle parole che li accompagnano. Quel pane e quel vino infatti non sono soltanto gli alimenti del pasto rituale, ma diventano il suo Corpo e il suo Sangue offerti in sacrificio al Padre per la vita del mondo. Sono la sua stessa vita di Figlio, Servo obbediente fino alla morte, spesa tutta per la gloria del Padre e la salvezza di noi uomini corrotti e, che si consumerà totalmente nella morte di croce, nel dono supremo di sé fatto sì “con forti grida e lacrime” (Eb 5,7) con totale obbedienza al Padre e con l’amore più grande per gli uomini. Agli Apostoli chiede di ripetere quei gesti e quelle parole fino a che Egli venga. Da allora in poi il pane ed il vino, deposti sull’altare, intorno a cui è riunita la famiglia di Dio presieduta da chi rende presente in essa il Signore Gesù, presi in mano in un clima di azione di grazie e di memoria e accompagnati dalle stesse illuminanti parole, per un singolare intervento dello Spirito Santo diventano ancora il suo Corpo ed il suo Sangue, il sacramento del suo sacrificio. Nulla è mutato all’apparenza, ma in essi e attraverso di essi Cristo Signore è presente in Corpo Sangue e Divinità, è veramente e pienamente l’ Emmanuele, il Dio con noi e per noi. Il Crocifisso Risorto, Sacerdote eterno, glorioso alla destra del Padre al quale egli mostra le piaghe gloriose, sempre vivo per intercedere a nostro favore (Eb 7, 25) e gli ripete il “si” della sua obbedienza sacrificale, mentre continua ad effondere sulla Chiesa lo Spirito Santo, come fece dalla croce, per consentire ai suoi di unirsi a lui e fare lo stesso.

Fate questo in memoria di me

Davanti al mistero della vita data, che è come Gesù stesso dichiara la prova ed il segno supremo dell’amore (cfr.Gv 15,13), solo silenzio e stupore sono gli atteggiamenti adeguati. “Adorare, tacere e godere”, come diceva Antonio Rosmini. Eppure il Signore ci chiede qualcosa di più sorprendente e sconvolgente: Fate questo in memoria di me (Lc 22, 19). Cosa in concreto? Non semplicemente di ripetere le sue parole o i suoi gesti, quanto piuttosto come dice san Paolo di fare nostri i sentimenti che furono in lui, al momento del suo sacrificio pasquale, di cui appunto facciamo memoria nell’Eucaristia. Ci chiede che il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato diventi “nostro”. E ciò è possibile nella misura in cui anche la nostra vita come la sua è “perduta”, cioè data al Padre in un atteggiamento di obbedienza filiale e di servizio. Gesù sa cosa c’è nel cuore dell’uomo (cfr. Gv 2, 24); conosce le debolezze, le fragilità, le miserie che ci inclinano sui sentieri tortuosi dell’egoismo, della superbia e dell’autosufficienza. Per questo ci viene incontro e supplisce al nostro limite; e su noi, che lo invochiamo dal Padre nella preghiera eucaristica, effonde lo Spirito Santo. Quello stesso che a lui consentì di offrirsi vittima immacolata a Dio (Eb 9, 14) rende capaci anche noi di diventare sacrificio gradito a Dio, servi-figli pronti a fare della nostra vita tutto ciò che Cristo ha fatto della sua. Come diventa non solo impegnativa ma esaltante e feconda la nostra partecipazione all’Eucaristia se celebrata e vissuta così! Ben diversa da un rito di costume, di convenienza o abitudine. Lo stesso atteggiamento oblativo dovrebbe animare anche il momento nel quale l’adorazione del “mistero della fede”, compiuta nel cuore della celebrazione eucaristica, si estende soprattutto dopo di essa per prolungarne l’esperienza. Il culto in Spirito e verità (Gv 4,24) che Dio ricerca dai suoi autentici adoratori, come Gesù rivela alla Samaritana e di cui egli ci dà per primo l’esempio, chiama in causa anzitutto quegli atteggiamenti interiori che si riassumono nel sì dell’obbedienza e della fedeltà. Tutto il resto, a cominciare delle parole e gesti del culto, sono “veri” nella misura in cui esprimono e traducono lo spirito che dovrebbe animarli. “La pietà che spinge i fedeli a prostrarsi in adorazione dinanzi all’Eucaristia li attrae a partecipare più profondamente al mistero pasquale… offrendo tutta la loro vita con Cristo al Padre nello Spirito Santo, attingono da questo mirabile scambio un aumento di fede, di speranza e di carità” (Rituale del culto eucaristico, Premesse, n. 88).

La Chiesa dall’Eucaristia

C’è un ulteriore aspetto da sottolineare legato al dono della vita fatta da Cristo al Padre con il suo sacrificio pasquale, di cui facciamo memoria. È relativo al frutto più importante e maturo di esso che è la Chiesa, mirabile sacramento scaturito dal suo fianco, sulla croce. Proprio perché l’Eucaristia è il sacramento di questo sacrificio, si deve affermare che da essa la Chiesa, che si manifesta e si edifica in ogni assemblea liturgica, è costantemente generata e rigenerata. “La Chiesa vive dell’ Eucaristia” è l’argomento dell’enciclica che San Giovanni Paolo II ha reso pubblico. In una bella pagina del Concilio Vaticano II tante volte ricordata, si legge: “Non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della Santa Eucaristia, dalla quale deve prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità “ (Decr. sul ministero e la vita dei presbiteri, n. 6). Radice e cardine perché nell’Eucaristia è dato a coloro che vi partecipano, di diventare un cuor solo ed un’anima sola. Lo Spirito Santo, riversato nei cuori dal Risorto presente nel mistero, li riempie del suo amore, suscita nella comunità doni e servizi, introduce tutti in una esperienza viva e forte con il Signore, mette in ciascuno il fuoco della missione. Si comprende allora la centralità che ha e deve avere l’Eucaristia nella vita della comunità parrocchiale, soprattutto nel “giorno del Signore” che perciò è anche “giorno della Chiesa”. In ordine soprattutto ad una comunione autentica ed operosa che non può limitarsi a stare gli uni accanto agli altri, dunque di tipo puramente fusionale. Radicata su colui che è il Capo del Corpo, originato e vivificato dallo Spirito, la comunione non sopporta chiusure individualistiche o di gruppo; divisioni e frammentazioni che contraddicono l’unità della stessa famiglia; dispersioni che lacerano il tessuto della veste senza cuciture di Cristo, che è appunto la Chiesa. Quante conseguenze dovremmo avere il coraggio di trarre da questi richiami di carattere teologico per la spiritualità e la nostra pastorale!

Perché il “fate questo” sia vero…

Quella di Cristo non è solo una pre-esistenza vissuta nella relazione della comunione trinitaria, ma una vera “pro-esistenza”: una vita spesa facendo del bene a tutti, come buon samaritano dell’umanità, incarnazione dell’amore del Padre per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. Fino alla morte di croce. Il cristiano è “un altro Cristo”. Lo è già per un dono dello Spirito Santo ricevuto nel battesimo, ma deve diventarlo sempre più nella risposta quotidiana al dono e vissuta in coerenza con ciò che Cristo ha fatto e insegnato durante il corso della sua vita. Fino a giungere “all’età matura” (Ef 4, 7). Dare la vita è dunque requisito essenziale per camminare da veri discepoli (Lc 9, 23-24). Anche se su questa istanza avremo modo di ritornare più avanti; mi preme qui sottolinearne un obiettivo fondamentale come quello della comunione che è requisito per fare memoria nell’Eucaristia del Servo- Figlio e nello stesso tempo impegno per viverla autenticamente. Ciò richiede, tra l’altro, spendersi generosamente e totalmente perché sia aperto a tutti l’accesso alla comunione con Cristo senza porre barriere o lasciandosi condizionare o frenare da pregiudizi. Chiede anche di non chiudersi nel privato, di superare le innate e frequenti spinte all’individualismo, al ripiegamento su se stessi o nel piccolo gruppo degli affini. La coerenza con quanto siamo venuti dicendo, comporterebbe non pochi cambiamenti nel nostro modo di pensare e di agire. Si tratta di quella “conversione” a cui sollecitano i Vescovi nel recente documento “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”. In ordine, ad esempio, ad una integrazione tra la celebrazione eucaristica domenicale della comunità e quelle di eventuali altre aggregazioni, Confraternite comprese, che, se non sono armonizzate e subordinate ad essa, possono offuscare il senso dell’unità intorno all’unico altare e contraddire l’unico pane di vita che tutti siamo chiamati a condividere per formare un solo Corpo. L’Anno dell’Eucaristia è un’occasione da non perdere a riguardo, non per il gusto di cambiare rispetto a consuetudini radicate da tempo, ma con l’intento evangelico di potare dalla santa vite che è Cristo vivente nella Chiesa, qualche tralcio di troppo o d’ingombro perché porti più frutto.

CAPITOLO V

L’EUCARISTIA E’ COMUNIONE

Il banchetto, nelle culture e nell’esperienza religiosa

In ogni cultura antica e moderna ritrovarsi insieme intorno ad una mensa acquista un senso ed un valore che vanno ben oltre la convenzionalità o il bisogno materiale di nutrirsi. Tanto più quando si tratta di banchetti – si direbbe “ufficiali”- che sottolineano patti o alleanze importanti, come ad esempio il matrimonio ovvero suggellano accordi di grande portata. È sotteso alla convivialità uno spessore che dà corpo a vincoli reciproci ossia ad impegni contratti che hanno non poche benefiche ripercussioni sulle persone e sulla collettività. Questo si verifica già sotto il profilo antropologico e sociale. Ci sono valori che il condividere lo stesso cibo nasconde e svela simultaneamente e che non possono essere sottovalutati: l’incontro, la festa, il dialogo, l’intesa, la volontà e l’impegno di costruire il bene e la pace, il desiderio di proiettarsi verso un futuro migliore e edificarlo con un impegno comune. Tutto questo è bene espresso in un proverbio che recita: “A tavola o si è amici o si diventa amici”. Insieme, intorno alla stessa mensa, specialmente in un contesto di alleanza, si creano e si consolidano vincoli, si stringono e si rinnovano intese, si assumono impegni importanti, si esprimono auspici e si tracciano cammini anche di fede per un futuro migliore. È su questi valori strettamente connessi con l’esperienza della convivialità che si innesta anche la valenza “religiosa” che le viene attribuita specialmente nelle culture più antiche. Nascono così i primi banchetti “sacri”. Questi vanno letti nell’ottica più ampia del “sacro” come espressione di una domanda religiosa che appartiene si potrebbe dire al DNA dell’uomo, il quale, sperimentando il suo limite e la sua precarietà, “invoca” una trascendenza che gli consenta se non di colmarli o almeno di acquietarli. In questa luce si spiegano anche i banchetti funerari con i quali chi è colpito da un terribile lutto esprime il desiderio di continuare a tenere vivi i legami con chi non è più con noi e, nello stesso tempo, l’auspicio che egli possa in qualche modo essere introdotto nella familiarità con Dio nel suo Regno di Amore. Ma è specialmente nel pasto dei sacrifici delle religioni naturalistiche che si evidenzia la dimensione “simbolica” dell’esperienza conviviale, strettamente connessa con i sacrifici rituali considerati un mezzo fecondo di unione con la divinità.

Il banchetto pasquale dell’antica alleanza

Inserito in questo filone prende significato specifico nell’esperienza religiosa d’Israele il banchetto, che nei sacrifici di comunione comporta la condivisione di una parte delle vittime immolate a Jahvè. C’è, in questi pasti l’espressione non solo della dipendenza da Dio e del desiderio di unirsi a lui, ma anche la volontà di un’unione con quanti vi prendono parte e, con essi, manifestano la stessa fede. Questo vale soprattutto per il banchetto pasquale che, nell’esperienza del culto proprio di Israele, non traduce solo un bisogno o un desiderio, ma celebra un dono ricevuto concretamente nella storia dalla gratuità di Dio e dalla sua bontà attraverso la liberazione da lui operata e dell’alleanza con cui è stata suggellata, nel rito del sangue. Tutto ciò avviene nel memoriale che Dio stesso ha ordinato al suo popolo di celebrare ogni anno nella coincidenza storica dell’evento stesso (Es 12-13) più in particolare nell’azione rituale e quindi nei segni che lo caratterizzano e lo rendono unico nel suo genere (l’agnello, le erbe amare e il pane azzimo che evocano quanto avvenne allora, la dura schiavitù del suo popolo) come pure i gesti e le preghiere, prima fra tutte la “benedizione” di rendimento di grazie. Attraverso la via simbolica dell’agire rituale era dato così ad ogni pio israelita che, riunito in famiglia faceva memoria dell’evento, di sperimentare la fedeltà e la potenza di Jahvè. Egli infatti -come recitava la preghiera di ringraziamento pronunciata dal padre di famiglia- non aveva salvato e fatto suoi soltanto i “padri” che ne furono protagonisti, ma vuole salvare e di fatto salva coloro che nell’oggi ne fanno memoria. Non solo, ma si è impegnato, in forza della fedeltà promessa, a farlo in futuro per le generazioni a venire. Ad una sola condizione: la fedeltà all’alleanza e l’obbedienza alla legge che ne è alla base. Ecco il senso profondo del memoriale, che abbraccia: passato presente e futuro. Va ben oltre, pure recependone alcuni aspetti, i banchetti sacri delle religioni naturali. È segno e strumento di comunione con il Dio dell’alleanza, ma anche di unità del popolo che gli appartiene.

Il banchetto pasquale di Cristo

È proprio in questo contesto che Gesù nostro Signore con gli Apostoli celebra la Pasqua alla vigilia della sua passione e morte, sull’antica innesta la nuova ed eterna Alleanza con il sacrificio che avrebbe offerto se stesso l’indomani sulla croce, come si è detto nel capitolo precedente. Nei segni sacramentali lo rende presente, chiedendo ai suoi di continuare a fare ciò che lui ha fatto. Appartiene a questo “fare” anche – e naturalmente- in ragione del “segno”, il mangiare e il bere. Emerge così la particolare natura di questo singolare sacrificio che, reso presente nel memoriale eucaristico, non comporta altro spargimento di sangue come invece avvenne in quello offerto dal Signore Gesù sulla croce che il Padre ha gradito risuscitandolo da morte il Terzo Giorno. Per essere sacrificio che suggella l’alleanza chiede prima di tutto, a chi vi prende parte, l’obbedienza della fede che è frutto dell’azione dello Spirito Santo; tuttavia questa disponibilità interiore o “sacrificio spirituale” esige che venga espressa e si manifestata con un segno eloquente e facilmente riconoscibile. Questo segno è appunto il mangiare ed il bere il Corpo ed il Sangue dell’Agnello alle cui nozze, perpetuate in ogni Eucaristia, sono invitati i Discepoli. C’è dunque una “manducazione spirituale”, costituita dal “sì” detto alla volontà/progetto del Padre; ma c’è quindi deve esserci, per quanto possibile, una manducazione “sacramentale” che consiste nella partecipazione ai segni eucaristici del Corpo e Sangue del Signore. In questo modo è dato ai commensali di far propria l’alleanza pasquale nella sua forma più piena. Non a caso perciò il Concilio Vaticano II ricorda che la “piena” partecipazione al Mistero eucaristico è data dalla comunione sacramentale. Ci si rende conto allora che l’alleanza o comunione alla quale il Signore ci invita e di cui vuole farci dono non è in noi totalmente realizzata o “consumata” se all’ascolto della parola di Dio, nella celebrazione, e al rendimento di grazie non si unisce il mangiare il Corpo del Signore. Gesto questo che appartiene al “segno” stesso del convito, non solo sotto il profilo antropologico ma soprattutto sotto quello biblico, in rapporto a ciò che il Signore Gesù ha fatto e ci ha comandato di fare. E’ infatti nell’atto dello spezzare il pane che i due discepoli di Emmaus riconobbero il Risorto. Quel verbo “riconoscere” non indica semplicemente che essi ravvisarono finalmente nel volto di quel misterioso pellegrino i lineamenti del Maestro che li aveva un giorno chiamati e che essi avevano seguito; vuol dire piuttosto che ne fecero l’esperienza più coinvolgente, quella della Pasqua: dalle tenebre alla luce radiosa della verità pasquale; dalla paura e dalla oscurità di una fede superficiale ad una totale adesione alla Persona del Cristo Crocifisso e Risorto; dallo smarrimento e dalla solitudine alla comunione perpetua con lui. Partecipando al Corpo e Sangue del Signore, noi come dice san Giovanni Crisostomo, diventiamo suoi “concorporei e consanguinei”, una sola cosa con lui; dimora di Dio e tempio vivo dello Spirito Santo nella forma più “compiuta” rispetto all’evento iniziale del battesimo. Dice San Giovanni Paolo II nella lettera “Resta con noi, Signore”: “(Gesù), mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in “noi”. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione con Gesù. Rimanete in me e io in voi (Gv 15, 4). Questo rapporto di intima e reciproca ‘permanenza’ ci consente di anticipare, in qualche modo, il cielo sulla terra. Non è forse questo l’anelito più grande dell’uomo? Non è questo ciò che Dio si è proposto, realizzando nella storia il suo disegno di salvezza?” (n. 19). In questo senso l’Eucaristia è: “il pegno della gloria futura” (S.Tommaso). Ci introduce nel banchetto festoso della comunione eterna con Dio stesso, verso la quale camminiamo come i Discepoli del pellegrinaggio terreno e del quale l’Eucaristia è “viatico” per la vita eterna. Questo però esige che ci si accosti al Corpo e Sangue del Signore con fede viva, anima e coscienza pura e purificata dal Sacramento della Penitenza. Per questo San Paolo stigmatizza con forza il comportamento dei Corinti che, cadendo nella contraddizione con il mistero celebrato e nell’incoerenza rispetto alle esigenze della fede e del discepolato, mangiano e bevono senza “discernimento” e in modo grave in situazione di peccato. E’ un monito severo perché questo vuol dire mangiare e bere la propria condanna (I Cor 11,29). Purtroppo non raramente accade anche oggi, nelle nostre comunità, che specialmente in particolari occasioni, molti si accostino all’Eucaristia, considerando la comunione al Corpo e Sangue del Signore in una dimensione soltanto “orizzontale” come segno di solidarietà, ovvero come un fattore di fraternità ed amicizia umana, quindi bisogna mettersi in testa che non si può ricevere Gesù Eucaristia senza aver fatto la Santa Confessione. L’Anno dell’Eucaristia è un’occasione da non perdere per ravvivare la coscienza su questo punto fondamentale. “Non è possibile partecipare alla mensa del Signore ed alla mensa dei demoni”, ammonisce severamente l’Apostolo (I Cor 10,2). L’Eucaristia è fonte di vita nuova; non è compatibile perciò con la vita dell’uomo vecchio posseduto dal peccato.

Un solo pane per formare un solo corpo

L’intimità profonda, anzi il rapporto sponsale che si realizza tra i Discepoli ed il loro Signore, nella partecipazione al suo Corpo e Sangue, non può essere adeguatamente compresa e realizzata se non la si mette in intima connessione con la comunione ecclesiale. In Cristo, per Cristo e con Cristo noi diventiamo ciò che siamo, come dice Sant’Agostino, cioè il suo Corpo. Quando, ricevendo nella bocca come su un trono di gloria l’Eucaristia, noi confessiamo con “l’amen” la fede nel mistero, diciamo simultaneamente “si” a formare un solo Corpo, una sola famiglia; in una parola: al suo progetto, quindi di conseguenza ci impegniamo, stretti a Cristo pietra angolare, a costruire, come pietre vive, la Chiesa, edificio spirituale, perché è abitato dallo Spirito Santo; e a vivere pienamente in comunione con lui, che è il Capo, e con gli altri membri del suo Corpo. Noi tutti dunque che mangiamo l’unico pane formiamo un corpo solo e un solo spirito (I Cor 10,17). In questa prospettiva si scopre tutto lo spessore dell’affermazione di ispirazione agostiniana ripresa dal teologo H. De Lubac, fatta propria dal Concilio Vaticano II e ribadita da San Giovanni Paolo II nell’enciclica “Ecclesia de Eucharistia”: l’Eucaristia fa la Chiesa. Se questa è il Corpo di Cristo, allora vuol dire che essa si costruisce e quindi cresce e in essa si cammina per diventare discepoli, nella misura in cui ciascuno è unito a Cristo e al suo Corpo che è la Chiesa. Queste affermazioni che nessuno osa mettere in discussione vanno tradotte nel vissuto per diventare credibili soprattutto a “coloro che sono fuori” ed hanno diritto di vedere testimoniata la comunione ecclesiale fondata sull’Eucaristia con parole, gesti e soprattutto comportamenti coerenti. Non è forse la comunione la prima fondamentale forma di comunicazione del Vangelo e, dunque della missione ecclesiale in un mondo lacerato, frammentato e disorientato come il nostro? Nell’assiduità eucaristica dunque sta la radice e la sorgente della fraternità evangelica e della comunione ecclesiale che non ammettono chiusure o ripiegamenti su se stessi, forme di prevaricazione degli uni sugli altri, spinte autonomistiche ovvero manifestazioni di sapore individualistico, quali invece è dato ancora di vedere nelle comunità. Se davvero vogliamo che le parrocchie diventino “comunità eucaristiche”, ogni divisione come ogni ingiustificata diversità deve comporsi nell’armonia; ogni pregiudizio deve essere abbattuto; ogni bisogno o limite e vuoto deve trovare qualcuno che si curvi su di esso con amore; e, finalmente ogni solitudine deve sperimentare compagnia. Se ci incammineremo insieme con decisione e perseveranza su questi percorsi, sui quali per tanti motivi si fa fatica a procedere, la nostra, come tutta la Chiesa, diventerà davvero “casa e scuola di comunione”, icona della comunione trinitaria e comunità missionaria in grado di testimoniare quell’unità che Gesù ha dato come distintivo ai suoi amati Discepoli; e, soprattutto, di far rinascere quella speranza che tutti auspichiamo per il futuro non solo dei credenti ma di tutta l’umanità.

Capitolo VI

L’EUCARISTIA E’ SERVIZIO

Dall’alleanza all’impegno

Ogni stipulazione di patti, ogni comunione che lega tra loro le persone, a cominciare da quella sponsale che è la prima fondamentale e la più forte, comporta sempre, insieme a clausole vincolanti, impegni esigenti. La fedeltà, soprattutto, che è per molti aspetti banco di prova e garanzia della riuscita dell’alleanza, della sua durata, dei benefici e/o vantaggi sperati. Se gli impegni non vengono mantenuti vuol dire che l’alleanza è tradita o inevitabilmente compromessa, peggio ancora rotta del tutto. È avvenuto così anche nella storia dell’alleanza tra di Dio e gli uomini. Fin dal principio e sempre quando l’uomo, rinunciando al dono divino pretende di fare a meno del suo Creatore e di mettersi al suo posto per costruire se stesso sul “proprio” progetto. Non è andata diversamente del rapporto instaurato con l’alleanza tra Jahvé ed il suo popolo. Questo, cedendo alla tentazione molteplice di assimilarsi alle nazioni, si è ribellato a Dio ed ha ripetutamente tradito l’alleanza, anche se Dio non ha mai smesso di attrarlo a sè e accoglierlo quando è ritornato a Lui con una conversione sincera. E’ il messaggio dei profeti, importante anche per noi che facciamo una medesima esperienza. Acquista quindi grande significato su questo sfondo il fatto che, nella Bibbia ed in particolare nelle profezie di Amos, Geremia ed Ezechiele, il tradimento dell’alleanza da parte d’Israele nei confronti di un Dio/Sposo sia descritto come una prostituzione ed un adulterio. È ciò che rende Israele una Sposa infedele, oggetto di vergogna davanti a Jahvé. Questi, invece, rimarrà fedele per sempre e quindi non cesserà mai, anche di fronte ai tradimenti più grandi, come quello dell’idolatria, di richiamare a sè la Sposa per stringerla con vincoli ancora più forti. Quella che abbiamo fatta, a proposito del tradimento di Israele non è una digressione, ma una riflessione che consente di apprezzare ed esaltare ancora di più la gratuità, la benevolenza della misericordia di Dio nei confronti del suo popolo, del quale noi siamo eredi; ma anche per comprendere fino a che punto giunge la fedeltà di un Dio che non si arrende nel suo amore e sempre attende dal suo popolo la risposta al dono che gli ha fatto. La risposta, espressa con una parola chiave ricorrente nella Bibbia, in particolare nell’Antico Testamento, è il servizio. Questo è un termine complesso perché, l’appellativo “servizio” è dato non solo al popolo d’Israele nel suo insieme, ma anche a persone singole che Dio sceglie, chiama e consacra con lo Spirito Santo per una missione finalizzata a garantire la fedeltà all’alleanza (ad esempio: i profeti, i giudici e re, ecc.). Riferito al popolo, il servizio lo riscatta da una concezione della sua stessa “elezione” come privilegio e potere per leggerla appunto come un “compito” nei confronti degli altri popoli ai quali è inviato a proclamare le opere meravigliose di un Dio vicino ai suoi, per i quali ha operato cose grandi. A parte ciò emerge una duplice dimensione del servizio al quale Israele è chiamato in forza dell’alleanza. Quello, anzitutto, che si potrebbe definire “verticale” ed è costituito dall’impegno dell’ascolto e all’obbedienza alla parola di Dio, da cui scaturisce il “culto” nelle diverse forme con cui esso si attua nell’esperienza religiosa. Il servizio del culto nella storia d’Israele sarà sempre esposto ai pericoli del formalismo e dell’esteriorità che lo svuotano del suo più intimo valore. Costituiscono perciò uno dei peccati più grandi d’Israele denunciati dai profeti e per i quali è chiesta una conversione totale ispirata ad una più autentica interiorità. È un rischio che possiamo correre anche noi… Accanto a questa la dimensione “orizzontale” del servizio che viene in certo modo ad identificarsi con la missione, come descriverò in breve.

La nuova alleanza e l’istanza del “farsi servi”

È soprattutto nella nuova alleanza che si rivelano i legami di essa con il servizio. Ciò risulta dal senso che assumono, in Cristo Gesù e nel suo sacrificio, gli annunci profetici sul Servo di Jahvé contenuti nella seconda parte del libro di Isaia (capp. 40-56) che lo stesso Gesù (Lc 4, 18-19) e gli scritti del Nuovo Testamento (Fil 2, 9 ss) considerano realizzati pienamente in lui e nella sua missione, con particolare riguardo al sacrificio che ne costituisce il momento culminante e fondamentale. Il legame alleanza e servizio però risulta specialmente dalle parole che accompagnano la “benedizione” sulla coppa del vino, durante la cena pasquale. Il sangue versato da Gesù, e dunque il suo sacrificio, come del resto tutto il suo ministero messianico, non conosce barriere: è per tutti. Un’attenzione particolare va rilevata per i poveri, i piagati nel corpo e nello spirito, i peccatori. Egli offrendosi come modello agli Apostoli, preda di ambizioni di prestigio e di potere, in aperto contrasto con il discepolato, egli dichiara di essere venuto “non per essere servito ma per servire” e aggiunge: “e per dare la propria vita” (Mt 20,28). Il che comporta che per Cristo il servire s’identifica con la sua “pro-esistenza” con la vita totalmente donata – come già è stato detto- nella morte di croce e che continua a donare nell’Eucaristia, perché tutti l’abbiano e in abbondanza (Gv 10,10). A quanti vogliono essere o diventare veri Discepoli e ad essa prendono parte chiede ciò che chiese agli apostoli, nella cena di addio alla vigilia della passione. Non solo di ricevere e condividere il Corpo e il Sangue del suo sacrificio, ma anche di imitarlo nel gesto emblematico del farsi servi. Il Cristo della cena, e dunque dell’Eucaristia, è in un atteggiamento “diaconale”. Mentre è seduto a tavola compie il servizio proprio degli schiavi, lui che è Maestro e Signore (Gv 13, 1 ss). E a Pietro riluttante ad accettare quel gesto umiliante e agli altri, stupiti per lo stesso motivo, chiede di fare ciò che lui ha fatto, la lavanda dei piedi. Questo vuol dire che anche il gesto di cui Gesù da’ esempio ai suoi, nel significato più profondo, appartiene al “memoriale” eucaristico. Integra ed arricchisce quello della frazione del pane e della comunione al Corpo e Sangue di lui. Due forme distinte, ma non separabili per non rendere vana la Croce di Cristo e quindi per fare memoria, nella celebrazione e nella vita, dello stesso sacrificio; rese ambedue possibili per l’azione dello Spirito che è stato diffuso dalla croce e che è sempre origine e anima di ogni servizio nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. A ben riflettere due sono le modalità con cui il “farsi servi” per i cristiani dovrebbe attuarsi: anzitutto nella celebrazione. L’assemblea eucaristica epifania di una comunità tutta “ministeriale”, in forza di doni diversi dello Spirito Santo che la anima dovrebbe essere dunque una vera “sinfonia” di servizi. Tutti e ciascuno dovrebbero essere disponibili a dare il loro contributo per una liturgia seria, semplice e bella, come è richiesto dal fare festa, soprattutto di Domenica. C’è ancora molta strada da fare da una parte per uscire dal persistente individualismo e dalla passività, dall’inveterato atteggiamento di considerarsi solo spettatori o fruitori di un rito. E’ da evitare, però, anche l’atteggiamento opposto di un esibizionismo e di una indebita appropriazione di compiti spettanti agli altri come pure di superficialità e di improvvisazione nell’esercizio dei diversi ministeri previsti nell’azione. Chiedo quindi impegno maggiore ai Diaconi, Sacerdoti, responsabili e agli animatori delle celebrazioni, di Domenica soprattutto, affinché siano esperienze autentiche di comunione e di festa. Soprattutto per quanto attiene al servizio del canto, che nella maggior parte delle situazioni, stenta ancora ad essere come afferma Sant’Agostino- “sacramento”, vale a dire, segno e strumento di quella fraternità e gioia che nasce spontaneamente se l’Eucaristia è realmente l’incontro con il Signore Risorto.

Un servizio per la missione

Il servizio che si radica sull’Eucaristia e da essa promana, è destinato tuttavia ad assumere respiro più ampio e ad identificarsi con la missione nel senso più globale che i cristiani, plasmati dall’Eucaristia, sono chiamati a compiere quoditianamente. In questa prospettiva si colloca la lettera “Mane nobiscum Domine”, scritta da San Giovanni Paolo II nell’ultimo capitolo intitolato: “L’Eucaristia, principio e progetto di missione”. “Quando si è fatta l’esperienza del Risorto – scrive- nutrendosi del suo Corpo e del suo Sangue non si può tenere solo per sé la gioia provata. L’incontro con Cristo suscita nella Chiesa ed in ciascun cristiano l’urgenza della testimonianza e di evangelizzare… Il congedo alla fine di ogni Messa costituisce una consegna che spinge il cristiano all’impegno per la propagazione del Vangelo e l’animazione cristiana della società” (n. 24). È un vero e proprio, invio in missione; l’invito ad iniziare a svolgere un’altra celebrazione nella quale tutta la vita va coinvolta ed è impegnata. Se l’assemblea si scioglie non è perché tutto è finito e si può stare al riparo o tranquilli avendo adempiuto ad un precetto perché si è compiuto un rito di tradizione, ma è un disperdersi nelle strade del mondo per testimoniare a testa alta il Vangelo della Risurrezione del Signore accompagnandolo con le opere dell’amore e l’amore delle opere.

D) Come si fa a custodire intimisticamente un tesoro, un dono che esige invece di essere spinto fino all’estremo limite, secondo ciò che Gesù ha fatto e chiede di fare ai suoi?

In questa prospettiva la missione viene colta e quindi va vissuta nella sua esatta portata: non si va a portare qualcosa, e tanto meno qualcosa di proprio, ma a comunicare il dono ricevuto: il lieto annuncio di Cristo Crocifisso e Risorto, con la forza dello Spirito Santo comunicata a coloro che nell’Eucaristia lo hanno incontrato, ascoltato e riconosciuto senza tentennamenti o indecisioni. La missione di salvezza si trova così legata alla consacrazione eucaristica in particolare. L’una e l’altra sono opera dello Spirito Santo. Non si tratta di una funzione tattica o organizzativa ma di prolungare la missione di Colui che è l’Inviato del Padre, in ogni dove, vivono le persone spesso in preda della solitudine, della depressione, devastati dalle tentazioni del maligno, della povertà non raramente nascosta, della sofferenza e dell’emarginazione, della violenza e dell’ingiustizia, per annunciare co gioia e coraggio a tutti la speranza della Risurrezione. Il Vangelo dice: “Come il Padre ha mandato me, io mando voi” (Gv 20,21). Il Signore Risorto ci chiede di uscire dall’apatia, da un cristianesimo ripiegato su se stesso che si esaurisce nell’ambito del culto e delle tradizioni, per andare invece nella “Galilea delle genti”, dove il Risorto continua a dare appuntamento a quanti lo cercano, per essere e riconosciuto, accolto e amato. 

CONCLUSIONE

 “Abbiamo contemplato, o Dio, le meraviglie del tuo amore” (Salmo 97).

L’intento di questo piano pastorale, secondo il desiderio del vostro Vescovo che Ama, Adora e Venera la SS.ma’Eucaristia, altro non voglio ottenere se non la contemplazione adorante del Mistero eucaristico, capace di suscitare lo stupore e la lode. Sono questi gli unici atteggiamenti possibili di fronte alla prova suprema dell’amore donatoci da Cristo Signore con la sua morte e risurrezione di cui l’Eucaristia è il memoriale per antonomasi. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Queste note parole dette da Gesù al saggio ricercatore della verità che fu Nicodemo, desideroso di saperne di più sulla sua persona e sul messaggio di cui Egli era portatore, sono ripetute anche a noi nel nostro tempo che abbiamo contemplato nella fede l’amore con cui il Padre continua ad amare il mondo donandoci il suo Unico Figlio nel sacramento del suo sacrificio cruento della Croce. E’ solo nella logica dell’amore oblativo, che il Signore Gesù ci svela nell’Eucaristia e di cui vuol farci partecipi, che è possibile dire il nostro “Amen”, il nostro sì di fede al Dono che egli ci fa fino alla fine dei tempi. Di questo amore abbiamo cercato di cogliere qualche aspetto, “declinando” per così dire una parola che di per sé dice tutto, ma può correre il rischio di rimanere generica e quindi insignificante. Nel Mistero eucaristico l’amore con cui il Signore Gesù ci ha amati è accoglienza, dialogo, oblatività, comunione e servizio. Queste sono le componenti fondamentali di una identità quella del discepolo e di tutta la comunità cristiana alla quale l’Eucaristia vuole plasmarci ed educarci. Per ridiventare cristiani autentici ed edificarci come Chiesa che sia “una” in lui ed aperta alla missione come lui la vuole. E’ l’obiettivo fondamentale a cui guarda il cammino di questo Anno che voglio dedicare alla Santa Eucaristia nella nostra Prelatura (Chiesa particolare). Animato dalla speranza che ciò possa realizzarsi, desidero “consegnare” questa lettera a tutta la Prelatura, e in particolare ai sacerdoti e ai diaconi, alle persone consacrate, agli operatori pastorali impegnati a costruire nelle loro parrocchie comunità autenticamente e pienamente eucaristiche. E’ una consegna che mi piace cogliere nella ricchezza che questo termine evoca nel linguaggio cristiano. Non si tratta semplicemente di affidare un messaggio verbale su uno dei punti centrali e qualificanti del mistero della salvezza e dunque di quella “comunicazione del Vangelo” a cui siamo sollecitati oggi nel mutato contesto culturale di indifferenza e di perdita della fede. Dal momento che si tratta dell’Eucaristia, la consegna acquista un senso assai più profondo: è una trasmissione vitale e reale, per il fatto che essa contiene e trasmette tutto il “mistero della fede”. E’ vero che nella celebrazione eucaristica noi annunciamo il grande messaggio dell’amore di Dio e della speranza per l’uomo, ma è altrettanto certo che essa non è semplice parola o tanto meno una dottrina. Come sacramento del sacrificio pasquale di Cristo è in certo senso “l’arca santa” in cui è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, “Cristo stesso nostra Pasqua” (Presb. Ord. 5). “Fratelli e Sorelle carissimi, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…” (I Cor 11, 23): con queste parole inizia il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatto, detto e scritto da San Paolo. In esso si richiama una Tradizione che a partire da Gesù, passando attraverso gli Apostoli ed i loro successori,(compreso me), giunge fino a noi. Di essa l’Eucaristia è il cardine, così come lo è di ogni fedele cristiano e della Chiesa che di essa continuamente vive e si manifesta. Con questa mia lettera ho voluto in certo modo farvi una “riconsegna” del Mistero eucaristico come “dono d’amore per l’umanità” perché sia contemplato, celebrato, adorato e vissuto e quindi portato a tutti, fino ai confini della terra. Quando infatti si è accolto e si accoglie il dono di un amore spinto fino all’estremo si sente il bisogno di comunicarlo. Quando la buona notizia della Pasqua del Signore Risorto arde nel cuore di ogni essere vivente, si avverte insopprimibile l’esigenza di diffonderla. Non c’è via di mezzo per chi è cristiano. La vergine Maria, la prima “donna eucaristica”, donna dell’incontro, del dialogo, della vita donata, della comunione e della missione, ci insegni a camminare da Veri Discepoli del suo adorato Figlio Gesù. Lei che per prima ha fatto ciò che fece Gesù, insegni a noi a prendere sul serio il suo comando: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19).

Dato a Roma nella Sede Episcopale il 15 Ottobre 2017

Terzo Anniversario di Consacrazione Episcopale

+ Salvatore Micalef

Vescovo Ordinario

 

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